"ELVIS PRESLEY: PRINCE FROM ANOTHER PLANET" DI LENNY KAYE

Nel 2012, in occasione del 40° anniversario delle esibizioni di Elvis Presley al Madison Square Garden di New York, la RCA Legacy ha pubblicato un set composto da 2 CD + 1 DVD dal titolo "Elvis Presley: Prince From Another Planet", nel quale si ascoltano i concerti del 10 Giugno e la conferenza stampa del 09 Giugno 1972.
Nel libretto contenuto nel set si può leggere un saggio di 5000 parole scritto da Lenny Kaye, storico e chitarrista per molti anni di Patti Smith, che fu presente sia alla conferenza stampa che ai concerti di Elvis Presley nella Grande Mela in qualità di redattore della rivista "Cavalier".
In questo scritto Kaye racconta quei momenti, cercando di comprendere in profondità Elvis, sia come artista che come uomo, analizzando la sua vita in quel periodo storico e con il senno di poi, conoscendone già l'epilogo.
Qui sotto vi proponiamo la traduzione del saggio, avuta grazie alla signora Carla Soffiantini, fan di Elvis Presley da poco più di un anno, che ha voluto fare al nostro Fan Club questo prezioso e gradito regalo e che ringraziamo di tutto cuore.
Buona lettura.

Elvis è entrato nell’edificio.
Nella seconda settimana di Giugno 1972, quasi 18 anni da quando alla Sun Record Sam Philips pronunciò quelle profetiche parole: "Questa è una canzone pop adesso” e lo lanciò nel suo cammino verso l’immortalità, l’uomo-bambino che diede al rock and roll la sua figura di spicco messianica, è arrivato nella città di New York per offrire quattro spettacoli al Madison Square Garden.
Non ha mai suonato qui prima, ad eccezione delle apparizioni televisive che hanno teletrasportato le sue piroette ad una nazione in attesa ed al soddisfacimento del desiderio della collettività adolescenziale.
In effetti, nonostante la travolgente linea di confine che ha tracciato nella cultura della seconda metà del secolo, dopo i primi spettacolari tour attraverso i luoghi delle sue origini meridionali, quando prendeva le strade secondarie con Scotty More, Bill Black e D.J. Fontana, portando la sua sintesi di blues e country e lo scuotimento dei fianchi agli appassionati fedeli, non molti avevano visto The Pelvis in carne e ossa.
Il suo manager Tom Parker, un oscuro personaggio carnevalesco che ha dato a sé stesso il grado di Colonnello, lo aveva trasferito velocemente nel mondo del cinema e delle attività promozionali. Proprio nel momento in cui avrebbe potuto mostrare al mondo il suo repertorio e la sua abilità scenica, l'esercito puntò un dito nella sua direzione.
Prima di sentire il rombo dei cambiamenti epocali degli anni Sessanta, è stato scaricato nella musica pop e si è messo al sicuro nelle leggere e interscambiabili produzioni hollywoodiane che lo hanno tenuto ad una distanza fatta di celluloide dal suo pubblico.
Ad essere sincero, nonostante tutti i suoi successi, nel 1972 Elvis poteva sembrare un pochino fuori moda, parte di un altro universo i cui rituali e danze sensuali era già datati, intrappolato nell'obsolescenza pianificata della Top 40, dall’accelerazione della gioventù che si reinventava riciclando la musica, specialmente quando gli inglesi mostrarono il loro specchio prismatico all’America e gli hippies presero il sopravvento.
Eppure, di tutti i suoi coetanei, Presley sembrava essere oltre i confini della nostalgia.
Lasciò ai suoi contemporanei, Bill Haley e Gene Vincent, perfino Little Richard e Chuck Berry, il compito di suonare concerti "vecchio stampo" e "rock and roll revival".
C’era ancora un potere iconografico in ciò che rappresentava, dimostrato in modo indelebile dal travolgente successo del suo ritorno televisivo nel 1968 dove, vestito di pelle, sudato, circondato da fans adoranti, diede prova che la sua più grande forza stava nell’interazione tra la sua interpretazione della canzone e la venerazione che suscitava nel suo pubblico.
Io c'ero. Io ci sono. Cerco di rivivere Elvis senza conoscere l'esito, nel luogo in cui questo concerto è segnato nel suo tempo e nel mio.
Ancora nel fiore degli anni, come sempre sarà. Ci sono molte stazioni della via crucis di Elvis - camionista a Memphis, re del rockabilly con l’aggiunta di un mucchio di gospel, l’Elvis di Las Vegas e quello dell’Aloha from Hawaii; ma una cosa che lui non è mai stato è essere un imitatore di Elvis.
Era autentico, anche se il suo personaggio sembrava diventare sempre più statuario e iconico. Era incredibile nello splendore della sua celebrità unica e nel modo in cui la usava per vivere all'interno del suo stesso mondo, apparentemente ignaro dei segni del tempo.
Era surreale, in quanto vederlo in carne e ossa è come un’apparizione, fin troppo intenso, come un vecchio televisore a colori vivente con tanto di pavone; le tonalità luminose del technicolor o le risonanze profonde del 45 giri, con ogni scanalatura impressa per il massimo coinvolgimento.
Entra nella stanza dove si terrà la conferenza stampa con suo padre al suo fianco. Figlio rispettoso con un tocco di prodigo in lui. È in azzurro polvere - non ha mai paura di un colore femminile, come quando abbinava il rosa con il nero - con quel tipo di gestualità timida che risale a quando ha iniziato ad ombreggiare le sue palpebre, abbassate a sottolineare il suo sensuale bacino.
Se ai ragazzi piaceva per "una delle…" sue qualità: giocare a football con le sue guardie del corpo, il karate e macchine e ragazze a bizzeffe; beh, le ragazze avevano le loro antenne, non avevano paura di abbordarlo nel corridoio prima di uno spettacolo, o di ciondolare presso la Cadillac mentre veniva caricata per il viaggio notturno verso lo Stato successivo o, più tardi, di recitare con lui nei film, che erano tutti imperniati su Elvis, non importava quale ambiente facesse da sfondo.

Il Colonnello Tom è al lavoro nella Mercury Ballroom dell’Hilton di New York, stringendo felicemente mani e distribuendo penne ricordo, aggiungendo un’aria crepuscolare a questo incontro con la stampa. C’è una trepidante attesa da fiato sospeso, fotografi che si accalcano per un posto, e un assortimento di registratori a cassette, ora vintage, disposti sul lungo tavolo dove lui si siede.
Per gli standard odierni, le procedure sono abbastanza gradevoli e cordiali. A volte sembra che ci sia un copione da seguire - i giornalisti riuniti hanno già trascritto le probabili risposte; Elvis deve solo riempire gli spazi vuoti per rispettare le scadenze. Dà le sue risposte accompagnato dal rumore degli otturatori delle macchine fotografiche, rivolgendosi alle giornaliste con “cara” e ai maschi con “signore”. L’ospitalità del Sud.
Si dichiara innocente quando arriva sulla pedana. Ma lui è il vero colpevole di tutte le accuse, colui che ci ha portato sul suo criminale cammino attraverso la nascita del rock and roll nell'immaginario collettivo.
Ci sono stati molti momenti che hanno condotto al suo fenomeno, quando la scintilla divina è stata annunciata, ma lui è lì al suo nascere: l’incarnazione. Lo spirito fatto carne. È così pieno di contraddizioni, alternativamente santificate, venerazione di Dio e della famiglia; e tuttavia il suo fascino è basato sulla lussuria, la promessa del pericolo e di realizzarlo.
Lui non è solo chiacchiere, motivo per cui è un cantante così convincente. È come se avesse assunto l’aspetto del gemello morto alla nascita e fosse diventato lui stesso diavolo o angelo. Chiunque dei due tu sia, ti amo.
Sembra in forma, sicuramente grande, ma riservato. È abbronzato - più tardi dirà che è stato ad abbronzarsi alle Hawaii - e, quando mostra la sua cintura per il titolo di campione dell’International Hotel, ha un’aria da campione di arti marziali. Ci dice che deve tutto alla vitamina E, e non c’è bisogno di chiarire che è sinonimo di: Elvis.
Sembra a suo agio mentre chiacchiera con i giornalisti e schiva le polemiche - non vuole criticare altri artisti, dichiara che quello che fa è "insipido" rispetto a quello che fanno ora, che lui è "solo" un "intrattenitore" - ridacchio sempre quando quel termine viene usato per descrivere l’arte complessa di portare le persone fuori dalla loro vita normale - e dice che non ha potuto venire prima a New York perché dovevano trovare "l’edificio giusto".
I Beatles hanno già suonato allo Shea Stadium. Il Fillmore East è chiuso da un anno (si può solo immaginare lo spettacolo di luci). I Blind Faith e Jimi Hendrix ed i Rolling Stones hanno riempito il Madison Square Garden. Il CBGB non è ancora stato aperto. Una cosa che a New York non manca sono i posti dove mettere in scena uno spettacolo. Siamo gente di spettacolo.
Ciò non fa che aumentare l’importanza del momento, l’eccitazione per questo fine settimana. I quattro spettacoli hanno registrato il tutto esaurito e io ho un biglietto per il primo, più tardi quel venerdì sera, dove sarò testimone di uno dei principali simboli della mia generazione rock and roll e delle molte di quella discendenza a venire.

Ci sono formalità di cui sbarazzarsi. Il comico che viene fischiato fuori dal palco, il maestro di cerimonie che consiglia i souvenir in vendita all’ingresso, le lampadine di migliaia di Instamatic che si accendono nel momento in cui "Also Sprach Zarathustra" di Strauss, da sempre conosciuto come il tema di "2001: Odissea Nello Spazio", risuona nel teatro. È l’araldica nella sua forma più eccitante, una fanfara degna del Re Sole.
La band irrompe impetuosamente con "That’s All Right", Elvis si allaccia un'acustica Gibson nera e si agita. Immediatamente siamo di nuovo nel primo libro della Genesi, la creazione della leggenda che conduce inevitabilmente a questo momento al Garden. Conosco la storia, l’aspetto quadrimensionale dello spettacolo, ed è il mio lavoro, da quando me ne occupo come redattore musicale per Cavalier , una rivista superficiale con aspirazioni letterarie, il che non è lontano da quello che "recensirò" fra poco. Sto pensando al mito, non tanto ad una vetrina di canzoni quanto ad una vetrina di lui, e mentre il suo spettacolo costruisce una serie di quadri viventi - con pose tenute a metà posizione, lasciando che le luci lo colpiscano come Ziegfeld un tempo illuminava il Grande Sandow, o stuzzicando il pubblico con una sferzata dei fianchi quando imita il periodo da Ed Sullivan - è facile seguire quella linea di pensiero. Lo spettacolo si sviluppa (avviso spoiler!) fino a quel momento in cui stende il mantello sopra le spalle e piega un ginocchio al suo pubblico in uno scambio di reciproca fedeltà.
Ma questo è sminuire il potere del canto che Elvis mostra in questi concerti, colto in un momento in cui stava ancora costruendo il suo futuro, quando dopo i contratti cinematografici e gli anni '60 da playboy, aveva ritrovato una parte fondamentale di ciò che aveva bisogno di essere, aveva messo insieme un'eccitante band e uno spettacolo e una disciplina di lavoro, ed era là fuori. Sulla strada.
Potrebbe andare in Inghilterra; potrebbe andare in Giappone, dice nella conferenza stampa, e c'è un'energia e una gioia con cui si scatena sul palco del Madison Square Garden, la maestria e la disinvoltura con cui solletica scherzosamente la fantasia del pubblico, che a sua volta lo abbraccia, e si ha l'impressione che possa riscoprire una vera e propria sfida con sé stesso. 
La scaletta non è un percorso fatto dei più grandi successi.
Filtra "Proud Mary" dei Creedence Clearwater attraverso la versione di Ike e Tina Turner; prende il successo del 1971 dei Thee Dog Night, "Never Been to Spain", scritto da Hoyt Axton (non è uno sconosciuto, poiché la madre di Axton è coautrice di "Heartbreak Hotel") e fa uscire le sue radici country; si alza in volo su "You’ve Lost That Lovin’ Feeling" dei Righteous Brother.
Queste canzoni gli servono per scaldarsi la voce, e se percepisco una nota di nervosismo nel suo linguaggio, un po' di difficoltà nei suoi movimenti, è comprensibile dato il trambusto promozionale, per non parlare delle mie stesse aspettative.
Ho aspettato quasi due decenni per essere colpito dalla forza della natura che è "Hound dog" e sebbene lui la costruisca facendo un cenno all’originale di Mama Thornton, l'attesa conclusione sembra messa in sordina.
Invece Elvis si muove verso la sua zona di comfort, che a questo punto è il bel canto di "Bridge Over Troubled Water" e gli inni combinati di "American Trilogy" di Mickey Newbury. Il crescendo di ciascuno è emozionante e maestoso, quando tutta la forza dell’insieme entra in azione dietro di lui sul "Bridge" e quando i temi conduttori di "Dixieland" e il gloria-gloria di "Battle Hymn of the Republic" salgono al loro coro di alleluia.
E poi si passa a "Wise men say…" ed io mi lascio trasportare. Più tardi, quando cerco di interpretare gli scarabocchi sulle schede che costituiscono i miei appunti, riesco a leggerli a malapena. Solo gli sciocchi si precipitano e io non do giudizi affrettati.
E non ce n'è bisogno. Lo spettacolo pomeridiano di Sabato inizia con tutti i migliori presupposti di riuscita.
Dopo la serata inaugurale, la matinée significa tornare al lavoro come al solito e, con un po' di meritato riposo ed una conoscenza del teatro e della sua acustica, Elvis e la band alzano il volume al massimo.
La TCB band è un'ottima combinazione di talenti.
Originariamente messa insieme per il tour di quattro settimane all’International Hotel di Las Vegas che cominciò il 31 Luglio 1969, è quella che Elvis aveva sempre sognato. Il Colonnello voleva ballerine e sfarzo. Presley, nelle parole di Ronnie Tutt, che è stato il suo batterista per tutto il tempo, sapeva cosa aveva in mente: "…una sezione ritmica energica e trascinante, una rock and roll band, una grande orchestra alle spalle, un gruppo soul nero e un gruppo gospel bianco".
Gli affari sono stati sistemati.
Tutt in particolare è imperniato su Elvis. Seduto dietro un set con un imponente anello di tom tom, sottolinea e incita: "Era questione di intuire e guardare i suoi occhi e osservare tutto quello che faceva. Io imitavo e mettevo in evidenza tutto ciò che faceva d'impulso. Ogni movimento, quasi come una gloriosa spogliarellista. E lui lo adorava". 
Si può sentire questa empatia nello spettacolo del Sabato pomeriggio, quando dopo il primo ritornello di "You've Lost That Lovin' Feelin' " ed i versi stanno arrivando a "gone- gone- gone", Ronnie batte un colpo di piatti che diverte Elvis.
Jerry Scheff, un noto bassista turnista sulla scena di Los Angeles - la sua prima esibizione è stata nell’associazione “Along comes Mary”-  è un musicista impegnato e la sua andatura sostenuta ("chiedeva quasi che gli dessimo un calcio nel sedere") e gli accordi del chitarrista ritmico John Wilkinson mantengono il ritmo marcato.
Il pianista Glen D. Hardin, nelle parole di Bob Palmer nella recensione dello spettacolo per Rolling Stone, "sa quando scherzare e quando fare sul serio".
Il basamento dell’ensamble offre al primo chitarrista James Burton tutto lo spazio di cui ha bisogno per stupire.
Presentato in televisione con Ricky Nelson negli anni ’50 e poi in "Shindig!" negli anni ’60, Burton ha molte opportunità per mettere in scena il suo considerevole talento, un suono caldo, pungente e pulito della Telecaster rosa che accompagna e fa da controcanto ad Elvis, così come nel corso degli anni molti chitarristi hanno improvvisato James ed il suo vocabolario di fraseggi tanto centrale al linguaggio della chitarra elettrica quanto al dialogo tra amplificatore e pick-up.
In "Polk Salad Annie" la band conduce Elvis alla frenesia ("Questo sì che mi ha svegliato!") e questo gli permette di inserire i suoi successi con disinvoltura e sicurezza.
Si lasciano andare, divertendosi. In "Love me", Tutt gli fornisce una replica su un mini tamburo che fa sorridere Elvis. "All shook up" lo segue a ruota, seguito da "Hearthbreak Hotel", un medley con "Teddy bear" e "Don’t be cruel" e poi la canzone dal "suo primo film", "Love me tender".
"Tutti i miei sogni si sono realizzati" canta ed è sicuramente vero: la folla urla in omaggio mentre cammina sul palco, la voce tremula, regalando sciarpe, indugiando a volte per asciugarsi il sudore dal viso con un pezzo di stoffa avvolto, come una speciale ricompensa aggiuntiva.
Mentre lo spettacolo avanza attraverso i punti di riferimento della nostalgia con "I’ll Remember You", un momento bucolico che raggiunge l'apice con il taglio tenorile della sua voce, sta dando a tutti nel Garden la possibilità di assaporare per anni i loro momenti insieme ad Elvis, ed a lui con loro.
I coristi cominciano a venire alla ribalta. Le "Sweet Inspirations", che una volta includevano Cissy Houston nel loro numero e adesso presentano Kathy Westmoreland come loro cantante "dalla voce acuta", e J.D. Summer e gli Stamps Quartet, aggiungono risonanza.
Gli arrangiamenti sono frizzanti, pieni di dinamismo e scoppi di incandescenza. Sono scorrevoli ma finemente realizzati, un insieme di coristi degno di un Elvis che, per ora e per sempre, sembra trovarsi nel mondo nel quale è sempre stato destinato a stare.
Accende le luci della sala per guardare il pubblico.
"Beh, chi si vede" canta con le parole iniziali di "Funny how time slips away" di Willie Nelson, con più consapevolezza di quanto sia effimero il nostro tempo su questa Terra e, sebbene Elvis in questo momento sembri eterno, il futuro ha altre idee.
Però adesso siamo tutti qui e c’è ancora qualche canzone prima che lasci l’edificio. Per prepararsi per lo spettacolo serale.
Pubblicato in fretta solo una settimana dopo averlo registrato, "Elvis As Recorded at Madison Square Garden" è il documento ufficiale della sua tappa al Madison Square Garden.
È un’esibizione più formale di quella del matinée, come era prevedibile. La band ci dà dentro più forte, a volte spingendo il ritmo; Elvis è teso, concentrato, controllato.
Il batterista Tutt ha detto che pensa che i nastri siano stati velocizzati, forse per far entrare l'intero concerto in un singolo disco - il concerto arriva a poco meno di un’ora, il che è un problema quando i solchi limitati di un LP possono a malapena contenere così tante informazioni - ma suppongo che nemmeno lui possa credere di poter suonare il suo rullo di tamburo di apertura così accelerato come quando la TCB Band si lancia in "That’s All Right".
Confrontando la versione in vinile con la rimasterizzazione digitale (dalle multi tracce originali), faccio fatica a trovare qualche variazione di tempo.
Le celebrità sono arrivate, come hanno fatto per tutto il weekend. George Harrison incontra Elvis nel Backstage; è stato detto che John Lennon fosse lì, ma in seguito lo nega, anche se canterà "Hound Dog" nell’Agosto di quell'estate quando si esibirà al Garden.
Il gruppo Ten Years After partecipa in massa. Elvis invita personalmente il cantautore Jerry Leiber, che supera la sua paura della folla per assistere agli spettacoli.
Molti sono in procinto di arrivare. Bruce Springsteen, che ha appena firmato per la Columbia, si sposta dalla costa del Jersey. 



David Bowie, nell’ebbrezza dell’incarnazione del suo Ziggy Stardust, è arrivato in aereo dall’Inghilterra.
Elvis e Bowie condividono lo stesso compleanno e, dopo essersi esibito fuori Londra Giovedì 8 Giugno, David prende un volo mattutino che lo porta al Garden all’incirca nel momento in cui "Proud Mary" prende il via.
Cammina lungo il corridoio centrale in pieno Ziggy “clobber”, come dice lui, con fiammeggianti capelli rossi e scarpe con la zeppa Kabuki, sentendosi leggermente a disagio, ritornando all’aeroporto dopo lo spettacolo per fare la sua esibizione del Sabato sera in Inghilterra.
In centro, dove i primi barlumi e luccichii di una scena newyorkese nostrana sono iniziati con l'ascesa delle New York Dolls, c'è sorprendentemente meno interesse. Forse i prezzi dei biglietti (dieci dollari! per un posto in balconata) sono fuori dalla portata dei musicisti itineranti che si radunano nel Lower East Side; o forse la produzione in stile Las Vegas è meno interessante del deciso ritorno alle origini promosso negli spazi delle esibizioni d'avanguardia e nei bar ribelli.
Ma per lo stipato Garden, c'è solo una stella che conta. La maggior parte di loro hanno aspettato una vita per vedere il loro Elvis, e mentre entra dalla destra del palcoscenico, viene accolto da un boato che è stato tenuto sotto controllo per tutti gli anni che gli ci sono voluti per debuttare a New York.
Me lo immagino dietro le quinte, sudato ancora prima di salire, assistito da Charlie Hodge, che sente aumentare l'adrenalina del momento e poi che balza su per le scale per prendere il suo posto sull'altare del basso palcoscenico.
Lo spettacolo segue la stessa scaletta dei due precedenti, sebbene nel pomeriggio abbia inserito alcuni extra con "Until It’s Time For You To Go ", "Reconsider Baby" e "I’ll Remember You".
Questa sera al loro posto aggiunge "The Impossible Dream" e inspiegabilmente abbandona "Blue Suede Shoes". La band non si ferma mai per prendere fiato tra la fine di un crescendo e l'inizio della presentazione seguente. Nonostante il ritmo spesso frenetico, Elvis sembra poco affaticato. Ci sono abbastanza ballate in cui può rallentare il suo battito cardiaco. La sua voce non porta alcun segno di affaticamento, l'intonazione è precisa; è uno strumento magnifico.
"L'immagine è una cosa", ammette in conferenza stampa, "e l'essere umano è un'altra. È molto difficile essere all'altezza di un'immagine".
Per un Elvis, peraltro, è perfino più difficile sapere dove finisce una e inizia l'altro. Non ha mezze misure. Non è un supereroe che riprende una banale esistenza quotidiana dopo aver salvato il mondo, togliendosi il costume con il ricamo in rilievo, gli occhielli e il mantello abbinato, tornando alla sua identità segreta. Non è un attore caratterista.
Vive la vita di un Elvis, circondato dal fossato della Memphis Mafia, con il suo castello in una terra di grazia arredata con i trofei del successo, pelli di animali, metalli preziosi, moquette. Se i suoi film sono in qualche modo indicativi, deve solo essere sé stesso e il sé stesso che interpreta in essi è rivelatore. Come un attore cinematografico, le sue intenzioni sono oneste, ma si lascerà influenzare da astuti manipolatori, le ragazze ed i cattivi di questo mondo, solo per ribellarsi e riprendersi il suo orgoglio, realizzare il sogno di redimersi grazie all’amore e scomparire nel tramonto delle Hawaii, di Acapulco, della Fiera Mondiale. O a Las Vegas, dove organizza il suo campo vacanze mentre si prepara per il suo passaggio all'esibizione dal vivo.
Come il suo personaggio, sa quello che è giusto; quindi avanza senza esitazioni. Proprio come Davy Crockett, un altro nativo del Tennessee, che si prese carico della coscienza nazionale del decennio, così come Elvis, sebbene anagraficamente un po' più giovane, ha piantato i semi per l'Alamo che sarebbero stati gli anni sessanta.
Bloccato dal Colonnello in contratti pluriennali per la serie di film da dimenticare, Elvis si sente intrappolato. Quando George Klein, un amico di vecchia data e disc jockey di Memphis, gli chiede quale sarà il suo prossimo film, Elvis può solo scrollare le spalle: "Stessa storia, luogo diverso. Picchio i cattivi, prendo la ragazza e canto dieci canzoni schifose".
La formula era tutt'altro che alchemica.
Ma lui è Elvis. Non può spezzare la catena e dichiarare la sua indipendenza?
È ancora il nome più importante del rock and roll. (Tranne che per quei fastidiosi Beatles che, intimoriti dall'esistenza di Presley, nell'Agosto del 1965 fanno un pellegrinaggio per fargli visita a Los Angeles. Ci sono barzellette da condividere, dadi e roulette da giocare, e George Harrison condivide una canna in piscina con il parrucchiere Larry Geller; ma, alla fine, i Fab Four non sono una grande minaccia. In realtà, Elvis considera Tom Jones il suo più grande rivale).
Allora perché non può fare i suoi film, fare tournée, lasciare il Paese, anche solo per ampliare i suoi orizzonti, lottare per ciò in cui crede? Sono gli anni Sessanta, amico. Tutto è possibile. O improbabile.
Se è davvero il ribelle dei nostri sogni, il trasgressivo, perché allora colleziona distintivi della polizia? Perché fare visita al Presidente Nixon per diventare un "membro" del Bureau of Narcotics? 
Ma onestamente, dopo l'Elvis in Memphis del 1969 prodotto da Chips Moman e sicuramente tornato in forma, il motivo è che le sue incisioni stanno migliorando sempre di più, guadagnando le alte posizioni nelle classifiche in virtù della loro perfezione e attualità, creando gli scenari tipici per l’Elvis che, ci piace credere, in fondo ha un cuore da artista.
Dopo l’aridità del suono delle sue colonne sonore, piene delle banalità degli apprendisti della musica pop, sempre alla ricerca di un ritornello per trovare invece delle zavorre, inframmezzate da alcune perle nascoste (la canzone dal titolo "Viva Las Vegas", anche se ci si chiede come si sentirebbe il Re riguardo al suo futuro utilizzo in uno spot pubblicitario della televisione per la disfunzione erettile), negli ultimi tempi ha costantemente registrato materiale e interpretazioni eccellenti: "Suspicious mind" e "In the Ghetto" emergono dalla sua nuova rinascita.
E, già inciso ed in attesa di uscire ad Agosto, c'è uno spudorato rock, "Burning Love", che salirà al numero due delle classifiche americane, ironicamente privato del primo posto da un incredibile nuovo successo di un altro degli originali peccatori del rock, Chuck Berry, con "My Ding-A-Ling". Così tanti perché, dicono gli uomini saggi...
In concerto, questa dicotomia dentro l’uomo, le contraddizioni che forniscono uno stimolo al suo talento vengono risolte e portate alla completezza.
Nei momenti più lenti, quando nell'aria c'è la riflessione anziché l'esuberanza, l'effetto della sua voce, mentre si muove oltre la spavalderia, grazie alla ricchezza del suo basso baritono, è carezzevole, ipnotico. Unisce i testi in modo colloquiale, a volte a loro discapito, come faceva Sinatra nei suoi ultimi anni, rendendoli scherzosamente familiari quando devono essere pronunciati per esteso; ma in questo ammicca ad un'altra delle sue influenze, Bing Crosby, che ha trasformato i ritmi del discorso normale in melodia.
In "For the good times" una storia di Kris Kristofferson relativa al capire che qualcosa è finito anche se è ancora in essere, l'atmosfera malinconica è stranamente preveggente di quel che il tempo svelerà.
La canzone avanza nel futuro, anticipando una delle ultime canzoni che Presley canterà in concerto nel 1977, "Are You Lonesome Tonight?"; sì, quella con la parte parlata, dove "Tutto il mondo è un palcoscenico, e noi tutti recitiamo un ruolo".
Non c'era nessun interruttore di accensione o spegnimento quando se n'è andato dal palco, o se c'era, non gli importava di girarlo, oppure se lo ha fatto, sapeva in che direzione avrebbe dovuto andare. Il prezzo che gli dei pagano per l'immortalità.
Elvis, con la complicità del Colonnello, si è buttato nel lavoro. Ci sono delle spiegazioni per questo. Lui e Priscilla, la sua sposa-bambina, si sono separati, una rottura iniziata a Febbraio che sarà ufficializzata il 26 Luglio. Indipendentemente dalle circostanze - la relazione di lei con l'istruttore di karate Mike Stone, il punto di vista di Elvis riguardo al posto delle donne nella sua vita - il fallimento della loro storia d'amore da favola deve ferire profondamente lui e la sua immagine pubblica.
Non c'è un giorno libero in vista. Subito dopo lo spettacolo pomeridiano di Domenica al Garden, la troupe partirà per il Midwest, suonando Lunedì sera a Fort Wayne, nell'Indiana. Viaggeranno lungo la spina dorsale del Paese da Evansville a Milwaukee, a Chicago, quindi si tufferanno a sud fino a Fort Worth, su fino a Wichita, attraverso Tulsa. 14 spettacoli in 12 giorni.
A prescindere dalla classe in cui si viaggia, questo è un programma estenuante per qualsiasi artista, figuriamoci per uno come Elvis, che deve irradiare carisma ad ogni fermata.
Eppure questo movimento, per uno che è stato rinchiuso e costretto in casa per la maggior parte della sua vita, anche se queste case sono simili a regge, è stimolante per Elvis.
L’anno dopo, che culminerà con il suo imponente speciale televisivo via satellite "Aloha From Hawaii" del 4 Aprile 1973, rappresenterà l'apice dei suoi spettacoli dal vivo; e anche se ci sono presentimenti della sua dipendenza dai farmaci prescritti, delle sue variazioni di peso, del senso di pressione dell'essere Elvis, che renderanno più incostanti le sue esibizioni dal vivo, questa ondata di tour sarà considerata come il momento migliore della sua carriera successiva.
La band è fresca ed energica, ed Elvis tiene la folla vicino al suo petto, come se nel sentire la loro fedeltà alla vita reale trovasse il sostentamento per cantare le loro vite a loro, e loro a lui, nell'interrelazione che c’è tra il pubblico e l'artista, il dare e il prendere.
Stiamo raggiungendo il culmine. Quando aprirà il suo mantello come ali e darà origine all'Arcangelo; il nono, sebbene apocrifo.
Sono stato nel Garden molte volte, avendo vissuto tutta la vita nelle sue vicinanze.
Ho visto il circo, il rodeo, le squadre di casa, i filmati di Marilyn Monroe che canta a JFK, parecchi gruppi rock; in futuro sarò lì quando Sly Stone si sposerà e porterò mia figlia a vedere i Muppet Babies. Nel corso degli anni la sua collocazione si è spostata a Manhattan. Questa variante della migrazione del Madison Square si trova adiacente ad una stazione ferroviaria e non ha il marchio volgare del luogo precedente sull’8^ Avenue tra la 49^ e 50^ strada. È stato lì che ho visto il classico incontro di Antonino Rocca contro l'argentino Zuma, con un incontro di contorno del Dr. Jerry Graham e Johnny Valentine che facevano squadra contro Bearcat Wright e Haystack Calhoun.
Quando Elvis si alza sulla pedana per sfoggiare la cintura dell'International Hotel, o mentre apre le braccia per mostrare al pubblico il suo aspetto regale durante i momenti di chiusura dello spettacolo, il mantello si apre per dargli l'apertura alare di un’aquila, mi tornano alla mente quelle gloriose entrate nell'arena del wrestling, un Gorgeous George che mostra i muscoli per la folla in uno sport in cui l'intrattenimento e la sceneggiatura hanno la priorità, o sono comunque accettati. 

Quando sento il suono metallico della campana, ricordo le immagini in bianco e nero della televisione, in concomitanza con l'ascesa di Elvis, quei suoi sfocati cinescopi dell'Ed Sullivan. Sono stati portati nei salotti nello stesso periodo e parlano di analoghi incontri che condividiamo con la nostra immagine riflessa, l’unica che ci fissa dopo una notte in città e si chiede chi si è preso la colpa.
Essere in viaggio porta Elvis sempre nel presente della sua vita, dove non deve preoccuparsi così tanto di chi potrebbe essere, ma deve solo uscire ed essere lui, sera dopo sera, e poi risalire su un veicolo in movimento. Vai amico, vai. Andiamocene davvero.
L'ultima parola in "Can’t Help Falling In Love" è "Youuuuuu". Agita la mano verso il pubblico allineato e li include tutti. Prima che il riverbero della vocale abbia la possibilità di decadere nell'arena, la band si lancia con l' "End theme" ed Elvis esce dal palco, verso la limousine in attesa. Nessun bis.
Sono passati quarant'anni. Una lunga seduta sull'echoplex. Quello che la sua abilità artistica sembra ancora ripetere e ripetere e ripetere è il testamento di quanto fosse originale come essere umano, di quanto fossero unica la sua voce, il suo modo di interpretare una canzone e la sua immagine, e continua ad essere.
Dove altri iconici cantanti della loro epoca sembrano intrappolati dal loro momento nel passato, solo la costellazione di Elvis diventa più luminosa. Non ha nemmeno bisogno di essere qui. Ogni anno a Memphis, nell'anniversario della sua morte, i fedeli sempre in crescita si radunano, vestiti con l'uniforme dell'Elvis che risuona dentro di loro.
Nel 1997 la TCB Band, tra cui James e Ronnie, accompagna il filmato di Elvis che si esibisce dal vivo in numerose occasioni. Lui realizza album di duetti postumi con star emergenti del paese. Si parla di ologrammi. Può il cyborg Elvis essere ancora molto di là da venire?
Quello stretto contatto interiore di un fine settimana nel Giugno 1972 ha un'umanità che smentisce tale creazione di miti. Una volta superato lo shock iniziale di vedere e sperimentare Elvis in carne e ossa, ci si rende conto della sua vulnerabilità. Il suo bisogno di cantare. Il nostro bisogno di ascoltarlo.

Lenny Kaye 09 giugno 2012