Poche ore prima del debutto al Toronto International Film Festival del suo nuovo film "EPiC: Elvis Presley In Concert", Baz Luhrmann ha rilasciato un'intervista al giornalista Mike Fleming Jr del sito Deadline.com, in cui ha raccontato la sua esperienza nel mondo di Elvis Presley e nella realizzazione dei due film che, nell'arco di 3 anni, hanno portato Elvis sul grande schermo per due volte.
Sul sito si legge:
È difficile scrollarsi di dosso Elvis Presley una volta immersi nella vita e nella musica del Re. La star di "ELVIS", Austin Butler, ha impiegato un'eternità per perdere la cadenza vocale e le movenze di Presley. Anche il regista del film, Baz Luhrmann, non è stato immune. Ha ampliato le sue conoscenze relative ad Elvis per realizzare "EPiC : Elvis Presley in Concert", un film in parte concerto ed in parte documentario, con filmati perduti e restaurati in modo impeccabile, risalenti ai suoi ingaggi degli anni '70 a Las Vegas, che sarà una gioia per i fans di Elvis e dissiperà l'idea che il cantante fosse semplicemente una caricatura gonfia e l'ombra del giovane che ha cambiato per sempre la musica.
C'è un dialogo giocoso che percorre tutto il film, sul fatto che Presley dovesse essere odiato o amato, e se sapesse davvero cantare. L'ostinata indagine di Luhrmann sui filmati perduti e sulle voci restaurate risolve quest'ultima questione nel modo più convincente.
DEADLINE: Prima di farti notare la tua incapacità di lasciar andare Elvis Presley, volevo dirti qualcosa sul prossimo film epico, il dramma su Giovanna d'Arco, "Jehanne d'Arc" .
Deadline ha rivelato che hai trovato la tua eroina in Isla Johnston (La regina degli Scacchi ), ma ho sentito dire che potresti posticipare l'inizio e pubblicare alcune scene che ti eri assicurato in Australia. C'è un ritardo?
LUHRMANN: È il solito dare e avere. C'è un motivo per cui spesso mi ci vogliono 10 anni per girare un film. In parte perché mi occupo del linguaggio visivo, della musica e di tutto il resto. Rispetto il modo in cui gli altri fanno film, ma la gente gira.
E nel bene e nel male, non ho intenzione di mettermi fretta. Ho l'idea, la descrivo, mi occupo del linguaggio visivo e della musica, mi occupo di tutta la politica con gli studi, scelgo il cast.
Una volta mi sono trovato in quella questione razziale, quando avevo preso Leonardo Di Caprio per "Alexander", ho cercato di andare avanti, ma ho scoperto che non era per me. Oliver Stone era davvero ossessionato dallo stesso argomento ed ha spinto la sua produzione. Io avevo delle questioni personali e familiari. Rispetto il modo in cui sono gli altri, ma farò le cose a modo mio.
DEADLINE: Questa è una novità per te: arrivare al TIFF con un titolo in fase di acquisizione. Mi hai fatto dare una sbirciatina a "EPiC: Elvis Presley in Concert".
Pensavo che, una volta emerso dai momenti rivoluzionari che hai descritto, mentre diventava una persona che sapeva affrontare i rischi e che ha ispirato così tanti ragazzi a diventare musicisti, fosse andato a Las Vegas e si fosse trasformato in una caricatura dentro una jumpsuit. Mi correggo: era un duro che sapeva davvero cantare, da quello che hai mostrato.
LUHRMANN: Sono contento che questa sia la tua conclusione più viscerale o immediata, Mike. Da bambino, ero sicuramente un fan di Elvis, lo adoravo. Ma poi sono passato a Bowie, Elton John e gente del genere. Vivevo in una piccola città di campagna. Bowie faceva paura. Gli Stones ed i Beatles, ovviamente, e poi anche Bachman-Turner Overdrive, i Tijuana Brass e l'opera.
Papà aveva un registratore a bobine che aveva portato dalla guerra del Vietnam ed io sono stato esposto ad ogni genere di musica, ma girando il film, mi sono ricordato di quanto Elvis fosse nella mia mente come ispirazione.
Il motivo per cui ho scelto Elvis come soggetto è stato perché, come tela, rifletteva davvero il viaggio dell'America negli anni '50 e oltre. Ho ancora difficoltà a spiegare ai giovani di oggi, o persino al pubblico, quanto Elvis facesse paura alla generazione precedente, che era tornata a casa dalla guerra e non voleva più rumore o battaglie. Volevano trasferirsi in periferia e vivere il "Dick Van Dyke Show".